Ieri sera, subito dopo la gara, scrissi ben un pezzo su quanto successo in una Sandero arena grondante abbondante ambrosiano orgoglio. Non voglio nemmeno perdere più un secondo a sottolineare come l’unico stadio del mondo in cui ai tifosi ospiti sia permesso di mescolarsi ai domestici è il nostro. Bello, segno di civiltà. Però…
Lascio solo il titolo, ché non rinnego quel che penso. Una disfatta; ma quel che misi giù era durissimo. Sento, leggo cori quasi univoci di giubilo, tesi a sottolineare la prestazione, la crescita, Théréau che fa reparto da solo, meri errori individuali sennò la gara si sarebbe indirizzata altrove.
Se mia nonna avesse avuto una ruota l’avrebbero chiamata carriola.
Il coach bianconero ha sottolineato l’orgoglio che prova verso i suoi; la buona prestazione di tutti, incluso Domizzi; il fatto che l’Udinese abbia tirato in porta più degli avversari; la soddisfazione per aver chiuso l’Inter capolista a ridosso della propria area (a malapena abile, questa, di segnarne quattro). Poi, alla domandina mallitta sulla mancanza di qualità nei propri calciatori nicchia, si contorce le mani, saluta e se ne va.
Eppure è tutto qui. Tutto maledettamente qui. E al contempo mi pare di avere visto una gara diversa rispetto a tutto il circondario bianchenero.
Ringrazio Dio, che mi ha creato permaloso ma libero; e chi mi ha diretto negli ultimi cinque anni, prima che dicessi basta, per avermi concesso di guardare le cose dall’alto di una certa imparzialità.
E così ho visto un’Udinese volitiva, propositiva, volonterosa ma sterile e fragile, imprecisa e poco attenta. Le frasi sentite dalla televisione societaria ”senza quegli errori sarebbe stata un’altra partita… senza le assenze sarebbe stata un’altra partita”, sono un puro esercizio di stile: non esiste una gara in cui si possa prescindere dagli avversari, specie se di fronte si para la capolista. O la seconda in classifica, come accaduto domenica scorsa. Nè dagli errori tecnici e personali, non meno importanti di quelli tattici.
Laconica la chiusura di Colantuono: “mica ogni domenica incontreremo l’Inter… Ahò, noi semo l’udinese…”. Un epitaffio: sul mio passato da supporter di questa formazione, sulla grandeur del recente passato, sulle vigilie in cui ci prudevano le mani ed alle major tremavano i polsi al pensiero di dover scendere in campo al vecchio Friuli. Di ciò prendo atto. Ma questo spazza via ogni ombra di indulgenza. Anche perché l’Anziate ricorda le uniche due gare bucate, contro Empoli e Palermo. Dimenticando, ad esempio, il pari di Verona, dove hanno vinto quasi tutte.
Quando una squadra italiana prende in sorte, in una competizione europea, un Brann Bergen, un Turun Palloseura o un Glentoran, sa perfettamente che dovrà giocare in lontani e piccoli catini ribollenti di tifosi domestici urlanti; la squadra di casa cercherà di vender cara la pelle, ma al primo errore sarà rete. E rete. E rete. Tre a zero. Quattro a zero.
Vi dice niente, tutto ciò? Mi chiedete di cantare le gesta di una squadra paragonabile alla terza del campionato ugro-finnico, ché si sono prese sette reti ma in fondo “c’è la crescita, c’è la prestazione”? Va bene. allora vale tutto.
Mi metto nei panni dei podòsferi bianchineri, e posso sentire la loro frustrazione. Ma, tolto il filotto di otto partite vincenti che guadagnò alla truppa di Guidolin i preliminari di EL persi contro lo Slovan Liberec, tale frustrazione si spande sulle plaghe di bianco e nero tinte ormai da cento e più gare, e da tre allenatori diversi. La verità è che avevano ragione gli osservatori esterni: sinché Totò Di Natale ha retto con le sue venti e più reti a stagione, e fino a quando gli sono stati messi accanto giocatori di valore, la bassa qualità media era mascherata da giocate individuali. Oggi invece il povero trentottenne segna il passo e non le reti; Théréau si sfianca in un lavoro di rifinitura (per sé stesso?) e di ricucitura fra reparti sfilacciati, mentre Lodi e Fernandes non solo performano infinitamente meno del previsto, ma (come ieri sera) lanciano Mauro Nara per due reti facili facili, ancorché da grande bomber qual’egli è. Il risultato è che in mezzo il migliore è il povero Iturra, ieri unico baluardo contro lo strapotere fisico di Felipe Melo ma attivo anche in fase propositiva. Qualcosa evidentemente non funziona.
Ieri la differenza non l’hanno fatta gli episodi, come spesso ci capita di sentire da commentatori oltremodo indulgenti: nella fredda notte della Logan Arena è bastata la sperequazione fra le falangi offensive gialloblu (interiste e non modenesi) e la raffazzonata difesa biancanera, priva di due pedine importanti (ma Felipe non era stato acquistato per fare il quinto difensore?) e in sofferenza contro i quattro supertecnici ambrosiani.
In fondo, la gara è durata ventuno minuti: quando Fernandes lancia Icardi per lo zero a uno, le convinzioni di un’Udinese fino a quel momento tutto sommato positiva crollano miseramente a terra come l’autostima udinese mentre i giocatori ritrovano per miracolo vecchi dubbi e gli errori si ripresentano. Zero a quattro con tre assist bianchineri alle punte interiste, che per altro mica ne avevano così bisogno…
Si gira pagina. Un filotto, come l’ha definito Colantuono, di tre gare vittoriose fra campionato e Coppa è stato spazzato via da sette reti prese (quattro su passaggio decisivo bianconero), nessuna realizzata. Diciotto punti, non tantissimi, campionato come si prevedeva mediocre in cui mancano nove, dieci vittorie per la salvezza matematica. Non credo alle rivoluzioni gennarine, qualcosa prenderanno ma immagino che (a ragione) Gino e amici saranno più eccitati dalle prestazioni londinesi del Watford e lassù invieranno eventuali prioritari rinforzi. O altrove. Perché il coast-to-coast di Jaison Murillo, fino a sei mesi fa controllato dai Pozzo, mi ha colpito come un diretto sul mento: specie se in bianconero si chiedono sforzi ormai eccessivi al vecchio bucaniere Domizzi, sul quale par fino ingiusto infierire.
Fui durissimo ieri sera. Non tenero stamane. Evidentemente sono ancora poco filosofico nell’assorbire quattro pappine in casa. Ricordo la prima in casa nel 1980-81, stessa avversaria, stesso esito finale. Il povero giovanissimo Pazzagli, guardian di porta esordiente, si vedeva proiettare in area palle da ogni lato. Ma quell’Inter era campione d’Italia, quell’Udinese eroica formazione pane-e-salame non ancora divenuta la generazione di fenomeni targata Enzo Ferrari. Oggi è un’altra storia: forte l’Inter, ma non insormontabile. E le occasioni di andare in porta ci sono anche state, mal finalizzate con ultimi passaggi imprecisi (rieccoci alla mancanza di qualità…).
Ora Lazio in Coppa e Torino. A sentire il mister, partite più abbordabili. Vedremo, li aspettiamo anche perché per scelta non sosteniamo alcuna delle major. Chiudo, banalmente, con luoghi comuni a profusione: basta la salute; e potrebbe andar peggio. Potrebbe piovere.
FRANCO CANCIANI