Ieri sera avevo decisamente bisogno di una serata di sport, dopo un pomeriggio, conseguente ai fatti cestistici di roseto, un po’… Vabbé, lasciamo perdere. Sono convinto di quel che ho viso, sentito e scritto, se gli avversari ritengono diversamente affari loro.
Ed in soccorso mi sono venute due squadre che giocano al calcio. Sì: due, inclusa l’Udinese di Delneri che inizia bene, ha un’impasse di una decina di minuti nei quali gli avversari segnano e rischiano di raddoppiare, poi equilibrio fino alla rivoluzione biancanera nella ripresa, di effettivi e intensità: gara ribaltata, poi riacciuffata dai granata per un pareggio giustissimo.
Il Torino è una bella squadra: dalla cintola in su gioca in maniera veloce ed a tratti elegante, potendo contare sul talento fumantino di Adem Liajic, ma soprattutto sul “mio” centravanti della nazionale, Belotti. Avrei voluto l’avesse preso l’Udinese dal Palermo, peccato. Non mi ha convinto l’argentino Boyé: probabile Iago non fosse in perfette condizioni, dato che in seguito è subentrato un evanescente Maxi ex-Nara.
In mezzo, il fatto che l’Udinese abbia giocato meglio e dominato la scena nella ripresa è dovuta sì all’ingresso del re leone islandese, ma soprattutto all’uscita di Valdifiori, un playmaker vecchio stampo che, assieme a Benassi, garantisce apporto alle punte e sostanza in ripiegamento. Ed eccellente Barreca, giovanissimo laterale lanciato da Mihajlovic dopo l’infortunio di Molinaro; al solito solido il lavoro di De Silvestri sulla fascia opposta.
Dalla cintola in giù, invece, i granata sono una squadra più media: gran legna, grandi legnate frenate con fatica da Tagliavento (che ieri, al netto di qualche giallo mancante e qualche sbavatura, ha tenuto bene in pugno una gara corretta); dietro Moretti e Rossettini sono bucanieri che hanno forse le migliori stagioni alle spalle. E sulle reti friulane si è capito.
L’Udinese aveva, come detto, iniziato bene giostrando agilmente, ma la rete di Benassi (compartecipazione fra la mancata chiusura del Larangeiro ed il lancio di Belotti) ne ha forse frustrato le buone intenzioni. Fofana si esibisce in pezzi di bravura, spaccando la difesa avversaria a metà ma peccando spesso in generosità. Ancora indeciso Sven Kums, che stenta a farsi consegnare le chiavi del centrocampo anche per propria, attuale, mancanza di personalità: Rodrigo è il solito personaggio in cerca di sé stesso, impegnato a tocchettare la palla quel paio di volte di troppo sufficienti a farlo rimontare anche dal massaggiatore avversario: personalmente, ad oggi una grossa delusione. Davanti Théréau corre ma si vede poco nella zona decisiva, mentre Zapàta si conferma “Duvan Z.” e tiene impegnata la difesa avversaria praticamente da solo.
Ma sono le retrovie a risultare spesso emozionanti: Widmer soffre, Felipe anche di più ma, si sa, lui lì è un adattato; in mezzo Molla Wague meglio di Danilo.
Nella ripresa, prima ancora del calcio d’inizio, capisco che quando scrivevamo di esser convinti d’avere, finalmente, trovato un allenatore non ci sbagliavamo: Kums bravo ma a far la doccia; De Paul bravo, ma per quanto ha corso magari neanche gli serve, la doccia; dentro Stipe Perica ed Emilio Halfredsson, per un cambio radicale. Tre in mezzo, Théréau da suggeritore per Duvan e Stipe. E il Toro soffre le folate bianchenere.
Il cambio di passo si vede: Emil non sarà Pirlo, ma riesce con agilità ed abilità a fare le “due fasi”, ammannendo legnate in recupero e blandendo carezze in avanti. Emblematica l’apertura di precisione per Widmer, sul cui traversone Cyril timbra ancora il cartellino, quattro volte in tre gare dopo sette partite iniziali in vacanza sulla Côte d’Azur mentre in campo ci andava il gemello scarso.
Le occasioni ci sono, anche dopo il pari; i granata sentono gli urlacci di Sinisa, il quale ha plasmato una squadra a propria immagine e somiglianza, ma la musica è cambiata. Zapata può realizzare su imbucata precisa di Seko, evidentemente catechizzato nell’intervallo da Gigi l’Aquileiense e ritrovatosi al meglio nella ripresa, ma Joe Hart mura la conclusione. Dal corner il flipper premia Duvan per il vantaggio.
Ho sentito gettare la croce addosso a Danìlo anche sul pari del Toro, ma preferisco applaudire la conclusione a giro di Adem Liajic, per un giusto pari. Che Zapata, all’ultimissimo giro di lancetta, potrebbe infrangere ma da quella posizione il colombiano la porta la vede proprio poco…
Lo show, quello vero, è nel dopopartita.
Non sono solito scendere in sala stampa, preferisco scrivere scempiaggini basate solo sulle mie percezioni. Ieri faccio un’eccezione, ma credo che d’ora in poi diventerà regola.
Gigi Delneri è un grande: lo dico da sempre e come sempre so di essere parziale, così come nel difendere Emil anche quando sbaglia.
Il mister ascolta con pazienza le domande, risponde a tono e con franchezza. Kums? È frenato mentalmente, è dotato tecnicamente e ha passo e personalità per gestire la squadra; non è bloccato, è frenato, ci lavoreremo sopra.
De Paul? Il calcio moderno è intensità, agonismo, corsa soprattutto senza palla. Chi non riesce ad adeguarsi a questi cànoni resta negli spogliatoi.
Continuità? Sì, ma paradossalmente la gara più bella è quella persa a Torino. Adesso bisogna continuare a lavorare nel cantiere-Udinese. In fondo, dice il Gigi, gli uomini li sta conoscendo via via…
L’occasione di Zapàta all’ultimo respiro? Gigi respira, digrigna i denti poi risponde “beh, ha fatto un bel movimento ed un bello scatto”. Sì, ma il tiro? “beh… poteva fare meglio” e si capisce che la cosa più saggia è salutarsi: Delneri quel pallone lo aveva visto dentro…
La cosa più bella? La curva riconquistata. Ci voleva, sostiene Delneri, perché per lavorare bene bisogna essere tutti d’accordo, in sintonia e senza malintesi di sorta, aggiungerei io.
Insomma, dichiarazioni di buon senso, di teoria del calcio applicata alle (per oggi) piccole cose udinesi; inoltre, gesto di ulteriore connessione con l’ambiente, Gigi sostiene a pieni polmoni come la salvezza altro non sia se non il primo passo verso l’obiettivo finale: il caldo ed accogliente ventre della Side A.
È balsamico poter avere un allenatore che parla, respira, pensa, ride esattamente come noi; che ci conosce come noi conosciamo lui, ed in più è intenditore di pallone, e pronto a cambiare le cose in tempo reale se, come direbbe sicuramente lui, vede “la cape maltajade”. Sta avendo la capacità eccezionale di oscurare ogni problema a monte del campo, incluse le ultime uscite della proprietà verso qualche quotidiano locale. Ha riportato, l’ho detto, il gioco e la maglia al centro del villaggio.
E per la prima volta, guardo a Genoa non mettendomi l’elmetto, ma con la curiosità di vedere se contro i corridori di Juric l’Udinese mostrerà, una volta ancora, un passo avanti: grande o piccolo, ma comunque avanti.