Curiosamente così vicino a quella poltroncina, all’epoca di colore grigio, su cui montai in piedi quando Manuel Gerolin ci salvò, anno 1981. Quel Manuel: un condottiero, un gladiatore, decisamente diverso dall’edizione dimessa che ho visto quest’anno.
Ci sarò: perché rispetto i tifosi, il collega di testata quando dicono di non riconoscersi in questa Udinese.
Ma io non ho tatuato sul cuore il nome Gino. Né Claudio, Rodrigo, Maxi. Né quello di un allenatore che con tutta la stima che può suscitare, proprio gare epiche non mi fa vedere.
Domani l’Udinese, cioè due colori ed una storia lunga centoventidue anni, si gioca la permanenza in massima serie ed io non mi posso negare. Fossi anche stato a cinquemila chilometri avrei preso quell’accidente di aereo per esser qui alle cinquemmezza, in tempo per non perdermi neanche un secondo.
Stavolta non ci sono impegni familiari che mi tengano lontano dagli spalti del Friuli, nomecommercialedaciarena, cui il mio cuore appartiene: e prima ancora era al Moretti, tribuna scomodissima e vetusta o rialzi in terra sul lato opposto.
Infanzia felice, la mia: con il Tempio Ossario, e l’arco di ingresso del campo, e il Baffone che si illuminava un pezzo alla volta, in cima al palazzo che ospitava l’amministrazione della birreria proprietaria dell’area. E quante volte ho costretto papà, dopo la cena dai nonni nella San Domenico di allora (così diversa da quella odierna), ove crebbi, a guidare fino in Piazzale Osoppo per farmi guardare quel Baffone colorato, che mi ipnotizzava ma mi tranquillizzava? E l’aranciata amara al bar della birreria dopo le partite viste con mio nonno? Brividi, anche oggi che son divenuto un furlano di mezza pianura, onusto d’anni ed esperienze.
Come dite? Che sono vecchio? Perché: sarebbe una colpa? Sono meno che cinquantenne, e da quarantasette seguo questi due colori che nel mio cuore, loro sì!, sono tatuati. Assieme ai nomi dei giocatori che la storia di questa squadra l’hanno fatta, loro sì!, nel corso dei decenni.
Allora domani eccoci lì: sempre noi, sempre gli stessi, qualche giovane in più attorno a noi, qualche capello in meno sulle nostre teste; la memoria recente che manca, quella remota che si acuìsce fino a ricordare il mantra delle formazioni bianconere di quarant’anni fa.
Eccoci lì, sui moderni seggiolini forniti dalla società che paradossalmente sembrano esserci costato il carattere, i risultati, la garra, la voglia e l’inespugnabilità.
Vero: questo stadio è così bello come poco poetico. Vero: in questo stadio ormai hanno vinto tutti, anche il Crotone e la S.P.A.L. (in amichevole) ma ciò domani non vale. Domani saranno pieni, gli spalti, complici anche i prezzi popolarissimi applicati: ed è giusto così. Giusto così.
Eccoci lì: novanta minuti di sofferenza, di tifo e cori, di canto, da parte nostro, ché cantori siamo non mai editorialisti o columnist, più il recupero. Si canteranno, si sosterranno i colori e la storia. Basta.
Perché non sono così ciuoto da non asseverare la stagione devastante che si chiude domani, ennesima di fila, responsabilità composita di chi sceglie il team, chi fa la squadra, chi la mette in campo e chi in campo ci va.
Ma domani un cuore solo, per passare l’ostacolo. Tutti assieme.
Io ci sarò, amici miei biacca e carbone, così come voi: però…
Però dal primo secondo dopo la fine della partita parta il disappunto, se non la contestazione. Chi ne sa ben più di me conferma che le cose non resteranno come stanno e giacciono, a prescindere dal risultato sportivo; che molti verranno chiamati a rispondere del proprio operato, in campo e fuori, come dev’essere in una società per azioni quale l’Udinese calcio mi pare sia. Come vedo le cose nel futuro prossimo? Ne parleremo, anzi ne scriveremo quando, stasera, avremo superato il Bologna in classifica.
Io ci sarò: perché l’Udinese siamo noi. anche, e soprattutto, domani.